A maggio di quest’anno ha chiuso definitivamente Better Place, una startup che ha fatto molto parlare di sé, anche e soprattutto grazie al suo fondatore, Shai Agassi. Non solo un imprenditore, ma un uomo con una visone ben precisa, carismatico e ricco di passione.
L’intero racconto della sua avventura, minuto per minuto, è stato già descritto in diversi articoli. Quello che più colpisce però, è il parere unanime sulle capacità di leadership di Agassi.
Eccezionalità è il temine che mi viene in mente dopo essermi fatto una cultura sul suo caso. Articoli su Quartz (“Agassi seemed to have the panache that often moves a new technology from mere coolness to wild popularity.”), Forbes (“Young, telegenic and fervent, Agassi was the public face of Better Place”), The Jerusalem Report (“He was supremely lucid and compellingly persuasive”), Wired (“Speaking without notes, Agassi roams the stage, preaching the inevitability of his plan. He has a way of describing things that is never zero-sum; everybody wins in his version of the future, even when he’s selling massive disruption”) e molte altre testate, lo dipingono come un comunicatore brillante, persuasivo e ispirato. Vedere per credere.
Ma il suo indubitabile charme non è bastato a salvare la sua startup, anzi. Dopo aver bruciato 836 milioni di dollari (si, avete letto bene), Better Place ha dovuto alzare bandiera bianca.
Fondata a Palo Alto nel 2007, forte di finanziamenti generosamente elargiti da General Electric, HSBC, Lazard, Morgan Stanley e The Israel Corporation (Israele era lo stato-prova scelto per il progetto), la startup si occupava essenzialmente di macchine elettriche. La missione di Shai era rendere il mondo un posto migliore grazie alla diffusione di un nuovo concetto di mobilità sostenibile. A questo scopo, doveva trovare un modo per rendere più appetibili economicamente e più funzionali operativamente le auto green.
Detto, fatto.
La sua soluzione? Separare la macchina dal suo componente più costoso, la batteria, che sarebbe stata di proprietà della Better Place. In questo modo per il consumatore i costi si sarebbero abbattuti e non di poco. Ma il guadagno per Agassi? Il ricavo sarebbe arrivato dalla vendita dell’elettricità, un po’ come le compagnie telefoniche guadagnano grazie ai minutaggi. Attraverso stazioni di servizio automatizzate e ben distribuite, l’automobilista avrebbe potuto cambiare la batteria (non ricaricarla, operazione che richiede molto tempo) con una nuova e ripartire, il tutto nel giro di pochi minuti.
L’idea era buona, i finanziamenti consistenti, la passione tanta (“Once you have a mission, you can’t go back to having a job”). Ma non ha funzionato. Cerchiamo di capirci qualcosa:
- creare l’hardware è difficile e terribilmente costoso. I fondi erano davvero ingenti, certo, ma i costi, anche considerando soltanto quelli per creare una fitta rete di stazioni di servizio automatizzate, erano altissimi. Agassi aveva bruciato gran parte degli investimenti ancor prima di avere un mercato;
- l’industria automobilistica al momento è legata a doppio filo alla benzina, c’è poco da fare. Cambiare questa situazione e, soprattutto, cambiare le abitudini dell’utilizzatore finale, non è impossibile, ma è di sicuro un’impresa titanica, se non si è sostenuti in modo adeguato da istituzioni e finanziatori (e dalle lobby, aggiungo);
- le uniche macchine con batteria intercambiabile erano le Fluence ZE, della Renault, con cui Better Place aveva stabilito una join venture. Dopo i primi anni di attività, rimanevano sempre l’unica scelta. Nessuna altra casa automobilistica aveva abbracciato l’idea di Agassi;
- anche se, come commenta Daniel Roth, “Most startups try out their product on beta testers. Agassi wanted a beta Country”, la scelta di Israele come campo prova non ha facilitato le operazioni per diversi motivi. In questo stato , infatti, le auto immesse sul mercato vengono acquistate in larga misura da aziende che le ridistribuiscono tra gli impiegati come benefit. E queste aziende non avevano la minima intenzione di acquistare auto elettriche. Non solo. Gli israeliani non avevano la stessa spinta ambientalista di Agassi. Una macchina deve portare velocemente il suo conducente da un punto A ad un punto B. Che inquinasse o meno era per loro di secondaria importanza;
- Agassi era una genio del software. Tutta la parte “logistica” della sua avventura era perfettamente organizzata ma né lui né gli altri manager della Better Place erano molto ferrati in campo automobilistico. Shai, come un novello messia, era guidato da una visione, più che dalla praticità.
Insomma: Better Place aveva la tecnologia, ma la strategia di diffusione è stata messa in atto malamente. L’accoglienza da parte del pubblico, inoltre, è stata freddina. Senza parlare del quasi totale disinteresse dell’industria automobilistica.
Già nel 2008 Daniel Roth commentava: “Shai Agassi has only one car, no charging stations, and not a single customer—yet everyone who meets him already believes he can see the future”. Questa è forse la lezione più interessante di tutta la vicenda, al di là dei vari errori di gestione del progetto.
L’immagine di Agassi è diventata quella di Better Place e viceversa.
Il leader, la sua passione, il suo sogno, sono diventati più importanti della startup stessa. E poco importa che nel 2012, poco prima del tracollo definitivo, Agassi sia stato destituito dal suo ruolo in favore di altri. Come nota Todd Woody, infatti, non è raro che il fondatore carismatico venga sostituito da un manager più esperto quando un’azienda passa dalla fase startup a quella successiva.
Il fatto è che l’idea stessa, meravigliosa come un miraggio ma altrettanto sfuggente, è diventata più importante della sua effettiva fattibilità: i problemi pratici con il prodotto e con i clienti sono passati in secondo piano. Ecco l’errore più grande.
Agassi ha avuto la visione giusta, ma non l’abilità per metterla in pratica. Ed ad adattarsi alle richieste.
Forse qualcun altro lo farà.
Forse è solo una questione di tempo.
Resto anche io dell’opinione che l’idea è buona: la sua soluzione risolve in modo semplice ed efficace il problema dell’attesa delle ricariche.
Attualmente in questo mercato ci sono un miliardo di complessità aggiuntive e altri miliardi (di miliardi) di interessi che vanno in direzioni opposte… quindi forse è davvero solo questione di tempo!
Fantastico, pur non essendo un sostenitore dell’auto elettrica.
Immagino che il modello di business di Better place si fonda con Tesla, l’unica realta’ auto-elettrica che pare possa sopravvivere.
Che ne dite?
Magari potrebbe essere proprio Tesla a riprendere questo concetto… tra qualche annetto!
ciao Luciano, ciao Nicola, grazie per i commenti. Credo pure io che Tesla sia la possibile soluzione al tema auto elettrica ma temo che finché ci sarà la benzina e soprattutto le grandi aziende con grandi parchi auto non decidano di passare all’elettrico non si riuscirà a raggiungere risultati eclatanti. Comunque il futuro non può che essere questo
Si pone un altro problema, ovvero il fatto che sempre più compagnie hanno bisogno di occupare spazio pubblico per piazzare le proprie strutture, specie quelle per cui la logistica è vitale. Lo spazio è limitato e i brand spesso fanno a botte con l’estetica del paesaggio intorno… Quello si che è il business del futuro!
Ciao Alessio, forse non è il modello giusto ancora
L’auto elettrica credo sia ancora nella fase per “intenditori” (diciamo early adopter). Il problema della batteria è sicuramente fondamentale. In quanto ad autonomia un’ auto elettrica non può vincere contro una tradizionale. L’idea di Agassi era sicuramente molto buona ma fuori tempo, troppo anticipatrice. Avrebbe dovuto aspettare la creazione di un ecosistema “elettrico”.
Quoto, grazie!