Solyndra: l’epic fail della green energy a stelle e strisce

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“Solyndra aprirà la strada ad un futuro migliore e più prospero”

Questa era la dichiarazione di Barack Obama in visita al quartier generale di Solyndra il 26 maggio del 2010. Il presidente USA non sapeva ancora che, invece, era davanti ad uno dei più grandi epic fail della sua amministrazione, un caso che gli sarebbe potuto costare anche la rielezione.

Facciamo un passo indietro. Torniamo nel 2005, quando la start up prese vita. Solyndra nasceva dall’idea di Christian Gronet, per ben 11 anni general manager presso Applied System, azienda leader nella fornitura di attrezzature, servizi e software innovativi in campo tecnologico: lo scopo era quello di realizzare un nuovo modello di costruzione di pannelli solari. La loro realizzazione, fino a quel momento, si era basata sull’utilizzo del silicio, un materiale molto costoso, senza contare che anche la metodologia per installarli sugli edifici era abbastanza onerosa. Il piano di Gronet, invece, prevedeva un abbattimento di costi: al posto del silicio si sarebbe utilizzato un innovativo film sottile dal prezzo più accessibile. Anche il design del nuovo pannello era un’arma a suo favore: grazie alla sua forma era molto più facile da installare, e quindi comportava meno spese.

Tutto questo giocò a favore di Gronet: il suo progetto di dare nuova vita al settore delle energie rinnovabili fece breccia nel cuore (e soprattutto nel portafoglio!) di molti imprenditori che decisero di investirvi. Nel terreno fertile della Sylicon Valley, dove l’azienda aveva la sua sede operativa, non fu difficile trovare finanziatori, anzi, i venture capital entrarono in competizione per accaparrarsi il merito di aver contribuito a questa innovazione.

Solyndra, poi, riuscì ad ottenere somme ingenti grazie anche al contributo di personaggi di spicco nel panorama americano: George Kaiser, ex petroliere e finanziatore della campagna elettorale di Obama, investì 400 milioni di dollari nel progetto industriale e la famiglia Walton, proprietaria della catena di grandi magazzini Wal-Mart, contribuì con ben 600 milioni.

Oltre a finanziatori privati, Solyndra riuscì a conquistare anche la politica statunitense. Sì, perché sia l’amministrazione Bush, che quella Obama, contribuirono in maniera massiccia a investire nella compagnia energetica con una grande quantità di fondi pubblici.

La prima grande spinta arrivò nel 2006, quando Solyndra si accaparrò parte degli aiuti previsti dall’Energy Bill per le migliori proposte nel campo delle energie rinnovabili. Oltre a questo, l’azienda poté beneficiare di alcune esenzioni fiscali, pari a circa 35 milioni di dollari, previste dallo stato della California. Tutto sembrava giocare a favore di Gronet e del suo progetto: un fatturato di 140 milioni di dollari, oltre mille dipendenti, 500 installazioni in tutto il mondo e l’espansione oltre i confini nazionali con l’apertura di una sede in Germania nel 2008.

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Solyndra, insomma, sembrava essere una vera e propria miniera d’oro, finché alcuni fattori iniziarono ad inceppare quello che sembrava essere un meccanismo perfetto. Primo tra tutti la drastica diminuzione del prezzo del silicone che, quindi, permetteva anche ai concorrenti di abbassare i prezzi dei loro prodotti, alzando così il livello di competizione nel settore. A questo si aggiunse un altro aspetto cruciale: la massiccia discesa in campo, nel mercato delle energie rinnovabili, di aziende cinesi che riuscivano a fornire pannelli solari ad un prezzo talmente basso che era impensabile per la start up statunitense riuscire a competere. L’inizio della grande crisi economica, che ha comportato una notevole diminuzione della domanda di questo tipo di prodotto, fu poi la goccia che fece traboccare il vaso.

Solyndra, quindi, iniziò la sua parabola discendente, ma presentò un piano di richiesta fondi al DOE (Department of Energy) ad inizio 2009. Benché nell’agosto dello stesso anno un impiegato del Dipartimento avvisò che il modello presentava problemi di bilancio e che sarebbe fallito non più tardi di settembre 2011, gli investimenti arrivarono comunque. Eccome!

A settembre, infatti, su sollecito arrivato direttamente dalla Casa Bianca, l’OMB (Office of Management & Budget) approvò il prestito. E non stiamo parlando di pochi spiccioli. Solyndra, infatti, ricevette ben 535 milioni di dollari per rimettersi in piedi. Cinquecentotrentacinque! A maggio 2010 Barack Obama visitò gli stabilimenti Solyndra rinnovando la sua fiducia nella “green energy” e nell’azienda che doveva rappresentare il futuro dell’America. Ma il sogno non si realizzò.

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I prezzi a cui i competitor offrivano gli stessi prodotti era sempre più bassi e Solyndra non riuscì più a farvi fronte. La crisi, ormai, era certa: a fine 2010 l’azienda comunicò che aveva finito i soldi e ad agosto del 2011 avviò le procedure di bancarotta secondo il Chapter 11 del Bankruptcy Code statunitense, spiegando che non era più in grado di sostenere i costi di produzione e la sempre più agguerrita concorrenza cinese. Insomma, il famoso impiegato del DOE che aveva pronosticato la sua fine a settembre 2011 era stato veramente un profeta!

La start up chiuse, quindi, i battenti e lo fece con oltre 700 milioni di dollari di debito, un buco enorme che andò a ripercuotersi anche sulle casse dello Stato. Nacque un vero e proprio scandalo per l’amministrazione Obama: dopo la chiusura di Solyndra, infatti, oltre ad un’indagine FBI per possibile frode, anche il Congresso attivò le sue commissioni per capire come fosse veramente andata la storia della domanda e concessione del grande prestito del 2010.

Il “Solyndra-gate” diventò un vero e proprio problema per Obama nel periodo in cui si stavano avvicinando le elezioni. Da più parti, infatti, arrivò l’accusa che un prestito così ingente e concesso in tempi così rapidi fosse stato possibile solo grazie alle “spintarelle” ottenute dall’entourage del Presidente. Uno dei più grandi sostenitori di Solyndra, infatti, il già citato George Kaiser, era stato anche uno dei principali finanziatori della prima campagna elettorale per la presidenza di Obama. Il sospetto di una scelta più politica che economica nello stanziamento pro-Solyndra era, quindi, lecito.

Qualche mese dopo la chiusura della start up, alla domanda se avesse dei rimpianti per questa vicenda, Obama rispose di no: “troppo facile parlare con il senno di poi” chiosò. Effettivamente è vero, come è vero che puntare sulle energie rinnovabili doveva essere uno dei modi per rilanciare l’economia americana. Tuttavia, un prestito di 535 milioni di dollari doveva essere concesso con maggior oculatezza: si dovevano rispettare le tempistiche dell’OMB per permettere delle indagini più approfondite e ascoltare gli allarmi lanciati dal DOE. Tutte cose che non furono fatte.

A ciò va aggiunto il fatto che il prestito andò a disperdersi per la maggior parte in macchinari mai utilizzati e in altre spese non indispensabili. Insomma, Solyndra, il sogno stelle e strisce per un mondo migliore, non ha saputo mantenere la sua promessa, anzi, si è trasformata in un vero e proprio incubo!

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